Stereotipi di genere: la grammatica del patriarcato

Di Sofia Battiato

Una problematica troppo spesso sottovalutata o tante volte osservata da lontano, quasi con timore. Eppure, prendere atto che tutti e tutte contribuiamo ad alimentare il pericoloso vortice della questione di genere è il primo passo per contrastarla

Immagine creata da Melissa Grasso

Sì, fa paura rendersi conto di questo aspetto "malato" della comunità e di quanto sia radicato nella nostra società perché ciò presuppone una presa di coscienza. Sembra banale, ma questo è il primo grande ostacolo alla lotta contro la discriminazione di genere. 

È comprensibile l’ingenuità di qualcuno che, non essendosene mai preoccupato, di fronte ad un femminicidio - l'uccisione di una donna in quanto donna - non riesca assolutamente a prendere coscienza di quale possa essere stata la propria parte per l'accadimento di un crimine così orribile. Ebbene è grazie a questo immediato distacco che ci si deresponsabilizza.

Quello che il femminismo cerca di far intendere non è che tutti gli uomini sono capaci di uccidere, ma che tutti, e tutte talvolta, contribuiscono al problema. L'atto estremo di uccidere, già di per sé gravissimo, diventa la "semplice" conseguenza di una serie di meccanismi di sopraffazione apparentemente molto più banali. Nessuno tra quegli assassini (ex-partner, fidanzati o padri) era un serial killer o uno psicopatico ma il figlio sano del sistema patriarcale che promuove la violenza e il culto del possesso, e di conseguenza la sottomissione della donna.

Il femminicidio è il vertice di una piramide che alla base si consolida attraverso gli stereotipi di genere e l’uso misogino del linguaggio. Parlare di stereotipi o di linguaggio quindi non è superficiale o da pignoli, non è un "capriccio" delle femministe moderne ma è l’unico modo efficace, si spera, per toccare da vicino la coscienza di ognuno di noi. Il problema ci riguarda tutti, riguarda ognuno di noi, non solo chi finisce dietro le sbarre. La prima prigione sono gli stereotipi di genere, quelle etichette che ci ingabbiano in definizioni, impedendoci di conoscerci davvero e di capire chi siamo. Associamo oggetti, colori o atteggiamenti a concetti quali la mascolinità o la femminilità. Permettiamo che pregiudizi vecchi di secoli ci impediscano di esprimerci, definiscano cosa dobbiamo essere nella vita, come agire o reagire. Ed è così, che fin dalla prima infanzia bambini e bambine si omologano a queste generalizzazioni e si innescano meccanismi che annullano le inclinazioni individuali che non sono correlate al genere biologico. Se sei una bambina ti insegnano a chiedere permesso, non a prenderti ciò che ti spetta. Ti ripetono che sei emotiva, mentre lui è determinato. Che sei fragile, mentre lui è forte, perché se si mostrasse debole verrebbe chiamato “femminuccia”. Che devi essere bella, mentre a lui basta esistere. E così, senza che nessuno lo decida davvero, il mondo si divide in due: chi ascolta e chi parla, chi si adatta e chi comanda, chi sa piangere e chi no. Ne rimangono vittime non solo le donne, ma anche gli uomini. Agli uomini si insegna che devono essere duri, dominanti, razionali. Piangere è da deboli, chiedere aiuto è da falliti. Così, molti si ammalano di solitudine e rabbia repressa. Crescono con il modello del padre che non accudisce ma "provvede", incapaci di ascoltare, di chiedere e di mostrarsi vulnerabili. 

Dunque l’impatto di questi meccanismi è pauroso, perché è così che il patriarcato si fa strada da secoli, e prende il sopravvento nella nostra quotidianità. Gli stereotipi non sono solo parole, sono armi, non sono battute per le quali farsi una risata. Abbattere gli stereotipi aiuterebbe tutti, consentendo a uomini e donne di essere chi sono davvero e di esprimere la propria individualità.

Di fatto sono tantissimi gli stereotipi e i pregiudizi con cui vediamo dipinta la società e li si può individuare con pochissima fatica. Basta guardarsi attorno, parlare con degli adolescenti, maschi e femmine, e chiedere loro quante volte si sono sentiti e sentite sotto giudizio per il loro modo di vestire. Basta alzare lo sguardo e osservare i cartelloni pubblicitari, i testi misogini delle canzoni o ascoltare le imprecazioni che usiamo quando ci arrabbiamo. Lo si capisce parlando con una donna che lavora, ma che lavora il doppio perché è anche madre. Lo si capisce guardando donne realizzate nella vita, ma considerate per sempre incomplete e infelici perché hanno deciso di non avere figli. Lo si capisce analizzando statistiche che affermano che la retribuzione degli stipendi è ancora impari tra donne e uomini con le stesse capacità, potenzialità e ruoli. Lo si capisce osservando un negozio di giocattoli, dove ben distinti sono gli scaffali per i maschietti dagli scaffali per le femminucce.

Prendere atto di quanto gli stereotipi siano radicati nella nostra società è il primo passo per sconfiggerli e superarli.

«Gli stereotipi sono la grammatica del patriarcato - diceva Michela Murgia  - Si imparano da piccoli, si ripetono senza pensarci, e diventano scuse per chi alza le mani».

 


Leggi anche Un murales oltre l'8 marzo: «Qui al liceo "Archimede" diamo voce alle donne»

Guarda il video No Fears No Filters 


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