Dalla Siria a Santa Venerina: una lunga Odissea con lieto fine



Sara Francesca Pappalardo

«La Siria è un posto così bello che c’è chi lo ha voluto solo per sé. Io l’ho dovuto lasciare perché ho scelto di essere un uomo che non prende in braccio le armi», afferma Ahmed mentre parla del suo paese d’origine maltrattato da anni dal continuo conflitto. Non è solo: con lui la moglie Fatima, i loro quattro figli e Amina, la suocera.

Tutti scappati dalla brutalità della guerra.

Li abbiamo incontrati negli spazi della Comunità Papa Giovanni XXIII a Santa Venerina, associazione parte della rete di accoglienza che porta avanti il progetto

Santa Venerina abbraccia la Siria

Da un lato vi è la gioia che si percepisce dagli occhi innocenti dei loro bambini che giocano ignari di quanto hanno vissuto, ma che si dicono orgogliosi di essere siriani. Dall’altro la maggiore razionalità degli adulti che si avverte nel viso travagliato della mamma di Fatima.

Amina – questo il nome – ha visto morire il marito davanti ai suoi occhi, insieme alla figlia: ad ucciderlo un cecchino incaricato di far fuori possibili oppositori politici.

Se Ahmed avesse accettato di prendere le armi, avrebbe potuto esserci lui al posto del cecchino. Avrebbe avuto la possibilità di uccidere invece di essere incarcerato e picchiato.

Da quel rifiuto di entrare nell’esercito sono passati molti anni. Dopo la fuga dai territori siriani, infatti, come molte famiglie, anche loro si erano rifugiati nel territorio più vicino, finendo però in un Paese che, non avendo aderito alla Convenzione di Ginevra, non riconosce ai siriani il diritto di asilo e quindi li considera illegali. Questo territorio, che li ha salvati facendoli “morire” è il Libano. Qui si sono conosciuti Ahmed e Fatima e sempre qui hanno vissuto per otto lunghi e bui anni. Qui nascono i loro quattro bimbi, due bambine e due gemelli (un maschio e una femmina) esclusi dalla possibilità di frequentare la scuola, come anche da quella di uscire a causa della mancanza di documenti. «Senza documenti non puoi lavorare, non puoi andare in ospedale, non puoi mandare i figli a scuola, non puoi spostarti perché se ti beccano ti arrestano o ti deportano in Siria. Per 8 anni abbiamo vissuto così, nascosti». Lo ha provato sulla sua pelle Ahmed: stava andando a trovare la famiglia della moglie, quando fu sorpreso dai controlli e mandato in carcere, dove più volte picchiato e lasciato a digiuno. Ma la sua sorte è stata più clemente di quella di molti altri concittadini perché una volta liberato è riuscito a tornare dalla sua famiglia. Ahmed ci spiega quanto sia stata disumanizzante questa situazione in cui tu sei l’unico a sapere chi sei. Lui e Fatima ricordano con dolore quanto sia stato difficile sopravvivere. Non poteva persistere quella condizione: non si può vivere in un paese dove rischi di morire continuamente e muori ogni giorno per le violenze a cui tu e la tua famiglia siete costretti.

L’unica possibile scelta era quella di imbarcarsi per l’Europa, sempre illegalmente come lo era stata la loro vita fino a quel momento. Ma può davvero essere illegale vivere? Avevano investito tutti i risparmi, persino le fedi: il loro futuro dipendeva dal mare e dal gommone su cui sarebbero saliti. Nessuno però è partito quel giorno. La guardia costiera libanese li ha respinti e incarcerati per alcuni giorni. Non avevano proprio più niente adesso, ma è stato proprio questo a salvarli. «Allora abbiamo conosciuto Operazione Colomba che ci ha presentato alla Comunità di sant’Egidio: tramite loro abbiamo ottenuto il visto per arrivare in Italia in sicurezza».

La tristezza per chi rimane in Siria e in Libano a soffrire non può passare: è un dolore che – come ci raccontano celando a fatica le lacrime – si portano ogni giorno nel cuore. Il ricordo di quello che hanno vissuto è ancora molto vivo, ma ora, stretti dall’abbraccio di tantissimi volontari, vedono ciò che da tempo avevano smesso di sperare: il futuro.

La loro storia, come la vita, non si è conclusa. È ripartita.   


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